Associazione Fornitori Ospedalieri Regione Puglia

BISTURI ITALIANI IN FUGA ALL’ESTERO

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www.repubblica.it_images_2010_05_21_081055784-0e769dfc-561d-430f-8f25-ed7c65e4acd2(Adnkronos Salute) – L’Italia “non è un paese per chirurghi”. A parafrasare il titolo di uno dei più bei film dei fratelli Coen, durante un congresso romano, è Francesco Corcione, presidente eletto della Società italiana di chirurgia (Sic). Che, dal palco, ha lanciato l’allarme: senza incentivi alla professione, e visto il continuo calo di iscrizioni alle scuole di specializzazione, tra soli dieci anni importeremo chirurghi stranieri per far fronte al fabbisogno del nostro Ssn.

C’è però un piccolo esercito di donne chirurgo che non solo resiste, ma cresce significativamente: in 10 anni, infatti, le iscritte alle scuole di specializzazione in chirurgia sono aumentate dall’8% del 2001 al 50% del 2010. Una nota ‘in rosa’, contro un futuro che tanto roseo non sembra.

“Ormai – ha spiegato Corcione – formiamo risorse che cercano fortuna all’estero. Una lenta ma inarrestabile emorragia che presto mostrerà i suoi effetti”. Una preoccupazione, quella di Corcione, resa più evidente dalle cifre: in Italia, nel 2010, il numero di assunti di ruolo in chirurgia generale ha coperto solo il 10% del fabbisogno e il 20% nella chirurgia specialistica. Situazione analoga nei reparti dove, nel 2011, mancavano all’appello 8.800 medici, che, secondo alcune stime, diventeranno 22 mila nel 2018 e 34 mila tra soli 10 anni. “Le ragioni sono molteplici, da quelle personali e professionali a quelle organizzative”, prosegue Corcione.

“Le scuole di specializzazione non riescono a riempire i posti a disposizione: negli ultimi anni abbiamo assistito a un calo di iscrizioni del 30%. Diventare chirurgo – sottolinea – non è più un sogno per i giovani medici: un laureato in medicina tra specializzazione e precariato inizia a guadagnare ben 10 anni dopo i suoi ‘colleghi’ in ingegneria o giurisprudenza.

Negli Usa – prosegue – il percorso formativo è più breve: 4 anni per la laurea, 5 di internato e 2 di specializzazione per diventare ‘chief resident’ (ce la fa uno su 10). Nel frattempo, il giovane studente americano alla fine dei 7 anni trascorsi ‘sul campo’ ha eseguito circa 2000 interventi con una rotazione obbligatoria nelle varie specialità”.

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