Vivilasanità: Payback, conto altissimo per le aziende private e per tutto il sistema sanitario nazionale ed economico

Vivilasanità – Interventi di Pietro Demola, docente School of Management e Francesco Albergo, Direttore Operativo Lum School of Management, Università LUM

 

 

 

 

FRANCESCO ALBERGO DOCENTE UNIVERSITA’ LUM

 

Il payback dei dispositivi medico-sanitari: cronistoria e stato dell’arte

 

di Pietro Demola, docente School of Management e Francesco Albergo, Direttore Operativo Lum School of Management, Università LUM

 

Il 15.9.2022 è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 216 il d.m. 6.7.2022, recante la «Certificazione del superamento del tetto di spesa dei dispositivi medici a livello nazionale e regionale per gli anni 2015, 2016, 2017 e 2018», con cui si è dato impulso ad una questione rimasta sino a quel momento sopita.

La problematica in esame, com’è noto, trova origine nella legge 15.7.2011, n. 111, di conversione del d.l. 6.7.2011, n. 98, recante «Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria», il cui art. 17, ai fini di controllo e di razionalizzazione della spesa sanitaria, ha introdotto il principio in base al quale la spesa per i dispositivi medici sostenuta dal Servizio Sanitario Nazionale dovesse essere fissata entro determinati tetti a livello nazionale e a livello di ogni singola regione, da definirsi tramite successivi decreti dal Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, al precipuo fine di garantire il conseguimento degli obiettivi di risparmio programmati.

Di qui, la correlata previsione che «l’eventuale superamento del predetto valore è recuperato interamente a carico della regione attraverso misure di contenimento della spesa sanitaria regionale o con misure di copertura a carico di altre voci del bilancio regionale» (art. 17, co. 1, lett. c, del d.l. 6.7.2011, n. 98).

Tale tetto di spesa era stato inizialmente stabilito al 5,2% del Fondo sanitario ordinario, per poi essere ridotto, negli anni a venire, sino alla soglia del 4,4%, attualmente in vigore.

È però con l’adozione del d.l. 19.6.2015, n. 78, convertito in l. 6.8.2015, n. 125, che si è introdotta la previsione di porre a carico delle aziende fornitrici una parte dell’eventuale sforamento del tetto di spesa regionale per l’acquisto di dispositivi medici, individuando tale quota di partecipazione da porre a carico dei fornitori nella misura del 40% per il 2015, del 45% per il 2016 e del 50% a decorrere dall’anno 2017.

L’art. 9 ter, comma 8, del citato d.l. n. 78/2015, poi, stabiliva che fosse compito del Ministero della Salute, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, certificare con proprio decreto, entro il 30 settembre di ogni anno, in via provvisoria, salvo conguaglio da certificare con successivo decreto da adottare entro il 30 settembre dell’anno successivo, in via definitiva, il superamento del tetto di spesa a livello nazionale e regionale.

Tale meccanismo, però, non è mai stato attuato.

Con la legge di bilancio del 2019, la procedura appena descritta è stata modificata: l’art. 1, comma 557, l. 30.12.2018, n. 145, ha infatti previsto che il Ministro della Salute, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sia tenuto ad adottare entro il 30 settembre di ogni anno un decreto che certifichi l’eventuale superamento del tetto di spesa previsto per l’acquisto di dispositivi medici, rilevato sulla base del fatturato di ciascuna azienda al lordo dell’Iva rilevato dai dati risultanti dalla fatturazione elettronica.

Tale certificazione sarebbe dovuta intervenire entro il 31 luglio 2020 avuto riguardo al superamento del tetto di spesa per il 2019 e, per gli anni successivi, 6 entro il 30 aprile dell’anno seguente a quello di riferimento.

Pure tale previsione, però, è rimasta inattuata.

Nel novembre 2019, in sede di Conferenza Stato/Regioni, vedono quindi la luce due accordi, volti a definire, in via retroattiva, i tetti di spesa per gli anni 2015-2018 (accordo rep. att. n. 181/Csr del 7.11.2019), e il tetto di spesa per l’anno 2019 (accordo rep. att. n. 182/Csr del 7.11.2019), rinviando il completamento della procedura di individuazione dell’eventuale superamento del tetto di spesa regionale per dispositivi medici a provvedimenti attuativi da emanarsi da parte del Ministero della Salute, di concerto con il Ministro dell’Economia e delle Finanze, al fine di certificare il superamento del tetto di spesa dei dispositivi medici a livello nazionale e regionale dal 2015 al 2019, fermo restando che «le modalità procedurali del ripiano saranno definite, su proposta del Ministero della salute, con apposito accordo in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e Bolzano».

Tuttavia, è solo con l’adozione del d.m. 6.7.2022, pubblicato il 15.9.2022, che viene certificato il superamento del tetto di spesa dei dispositivi medici a livello nazionale e regionale e, quindi, si è dato concreto avvio al procedimento del payback nella materia in esame.

In particolare, in base al citato d.m. 6.7.2022, le aziende fornitrici di dispositivi medici dovranno rimborsare al Servizio Sanitario Nazionale:

  • € 416.274.918 per l’anno 2015;
  • € 473.793.126 per l’anno 2016;
  • € 552.550.000 per l’anno 2017;
  • € 643.322.535 per l’anno 2018.

Con l. 21.9.2022, n. 142 (c.d. decreto Aiuti bis), è stato quindi disposto l’obbligo per ogni singola Regione di pubblicare l’elenco delle imprese fornitrici soggette alla previsione di ripiano per gli anni 2015, 2016, 2017 e 2018, entro il termine di 90 giorni a decorrere dal 15.9.2022, con la previsione che nel caso in cui le aziende fornitrici di dispositivi medici non adempiano all’obbligo di ripiano entro il termine di 30 giorni dalla pubblicazione dell’elenco, potranno compensare i propri eventuali debiti con i crediti pretesi a titolo di rimborsi a titolo di payback, sino a concorrenza dell’intero ammontare.

Infine, con decreto 6.10.2022, pubblicato in G.U. n. 251 del 26.10.2022, sono state adottate le linee guida propedeutiche all’emanazione dei provvedi-menti regionali e provinciali in tema di ripiano del superamento del tetto dei dispositivi medici per gli anni 2015, 2016, 2017 e 2018.

Si tratta di somme ingenti che, nella maggior parte dei casi, erodono i margini di utile delle forniture effettuate in quegli anni dalle imprese del settore.

La situazione, come prevedibile, nei mesi scorsi ha generato un contenzioso di fronte al TAR Lazio ed al Capo dello Stato mediante una valanga di ricorsi presentati dalle Aziende coinvolte, le quali hanno pure sollevato questioni di legittimità costituzionale.

L’indirizzo assunto in questa fase dal TAR, chiamato a discutere sulla sospensione cautelare di un primo gruppo di ricorsi, è quello di esaminare la questione direttamente nella fase di merito e, quindi, di pronunciarsi direttamente con una sentenza definitiva.

Essa, come ovvio, andrà a creare un precedente decisivo per tutti i ricorsi da discutere successivamente, stante la forte analogia tra gli stessi.

Intanto, le Aziende continuano con le pressioni sul Governo al fine di ottenere un intervento normativo che le tuteli da questa misura così vessatoria.

Tra le eccezioni giuridiche sollevate dalle Aziende attinte dalle richieste di restituzione, troviamo in primis la rivendicata lesione dei principi di certezza del diritto e di legittimo affidamento, quali immanenti nel sistema costituzionale nazionale e comunitario.

In applicazione di tali principi, la Consulta da tempo ha stabilito che «Nell’innovare con efficacia retroattiva il regime applicabile alle domande di ricongiunzione già presentate, essa vanifica l’affidamento legittimo che i lavoratori avevano riposto nell’applicazione del regime vigente al tempo della presentazione della domanda, principio che si configura quale «elemento fondamentale e indispensabile dello Stato di diritto» (sentenze n. 822 del 1988 e n. 349 del 1985) (C. cost., 23.6.2017, n. 147).

Nel caso di specie, la modifica retroattiva dei rapporti prevista dagli atti gravati appare del tutto irragionevole, giacché interviene a considerevole distanza di tempo dagli anni (2015-2019) rispetto ai quali si è perfezionato il diritto a percepire i compensi maturati dalle imprese fornitrici «soggette a ripiano», quando si è oramai consolidato il diritto degli operatori economici ad incamerare i compensi per le forniture effettuate, e senza che siano state valutate soluzioni alternative al fine di fare fronte alle esigenze di contenimento della spesa in ambito sanitario.

La modifica retroattiva delle condizioni economiche della fornitura, quando tale modifica trovi fondamento unicamente in esigenze di contenimento della spesa pubblica, contrasta anche con il principio di tutela dell’affidamento di matrice comunitaria.

La Corte del Lussemburgo ha, per esempio, ritenuto che «il principio della tutela del legittimo affidamento osta a che una modifica della normativa nazionale privi un contribuente, con effetto retroattivo, di un diritto a deduzione da questi acquisito» (§ 45 di C. Giust., Sez. V, 11.7.2022, in causa C-62/00).

Secondo il diritto comunitario è possibile intervenire su posizioni consolidate con un atto avente efficacia retroattiva solo in via eccezionale e qualora lo scopo da raggiungere lo esiga.

Nel caso di specie, però:

  1. a) il payback è adoperato in maniera tutt’altro che eccezionale, ma quale ordinario strumento di contenimento della spesa in ambito sanitario; prova ne sia che esso non è riferito ad un solo anno, ma a ben quattro differenti anni, che vanno dal 2015 al 2018, e ne è prevista l’applicazione anche in futuro;
  2. b) non vi è alcuna valutazione in merito alle varie soluzioni con le quali sarebbe possibile conseguire lo stesso scopo di contenimento della spesa sanitaria;
  3. c) non vi è alcuna considerazione del legittimo affidamento coltivato dagli operatori economici interessati dal payback, le cui posizioni non vengono in alcun modo prese in considerazione negli atti gravati e nella norma sulla quale essi si fondano.

Peraltro, la spesa sanitaria è stata alimentata da acquisti di dispostivi medici alla stessa maniera in cui è stata alimentata da spese in altri ambiti: pagamento di servizi di pulizia delle strutture sanitarie e ospedaliere, pagamento dei pasti forniti ai degenti, pagamento delle spese di guardiania degli immobili, di manutenzione degli stabili, ecc.

Sono molti gli operatori che si alimentano dell’indotto che «gira» intorno al mondo della sanità.

Pretendere che a ripianare eventuali situazioni deficitarie di bilancio debbano essere solamente alcune imprese, piuttosto che altre, significa incidere evidentemente sulla capacità economica di tali imprese e sulla loro possibilità di accedere al mercato, con vantaggio delle concorrenti avversarie.

Peraltro, essendo il mercato dei dispositivi sanitari un mercato con dimensioni amplissime, che si apre su scala mondiale o (quanto meno) europea, l’aver imposto l’obbligo di contribuire al risanamento del debito pubblico ad alcuni operatori, significa porre tali operatori (quelli che lavorano anche in Italia) in una condizione svantaggiata all’interno del mercato di riferimento.

In definitiva, dall’applicazione di questa norma vi sarebbe un conto altissimo non solo per le aziende private ma per tutto il sistema sanitario nazionale ed economico in generale laddove, a fronte di 4.500 imprese private chiuse ed oltre 120 mila posti di lavoro persi, avremmo ospedali senza possibilità di approvvigionarsi anche dei più classici prodotti consumabili, andando incontro all’inevitabile blocco delle prestazioni erogate.