Primari, in 5 anni sono passati da 9600 a 7600

(La Repubblica) – Una volta li chiamavano professori anche se non avevano alcun titolo accademico, solo per deferenza. A loro ci si appellava per i casi più complessi, con un’aura di quasi infallibilità davano l’ultima parola su interventi o terapie. Tempi passati, forse nessun ruolo nella sanità è cambiato quanto quello del primario, da tanti punti di vista. E oltretutto si tratta di una figura che diventa sempre più rara. Gli ultimi dati del conto annuale della Ragioneria dello Stato raccontano di un calo del 20% nel giro di cinque anni: tra il 2009 e il 2014 sono passati da 9.600 a 7.600. Nessun’altra categoria di dipendenti del sistema sanitario nazionale, pur in anni di crisi, tagli, blocchi del turn over, ha visto una riduzione così drastica. Nello stesso periodo, ad esempio, i medici degli ospedali pubblici sono diminuiti del 5%. Per avere un’idea di quanto sta succedendo, può bastare un dato: 2mila primari sono quelli necessari per far funzionare circa 200 ospedali di media grandezza, quelli necessari per mandare avanti la sanità in tre o quattro regioni grandi.

Non c’è una sola spiegazione per quanto sta avvenendo, e le interpretazioni cambiano a seconda degli interlocutori ai quali si chiede un parere. I sindacati ad esempio vedono come causa principale la tendenza ai tagli alla sanità degli ultimi anni e danno un giudizio negativo. C’è invece chi coglie aspetti di razionalizzazione. Ridurre i primari vuol dire ad esempio cancellare i doppioni. In tanti ospedali, soprattutto grandi, non era raro trovare due o tre cardiologie, medicine, chirurgie generali. Le Regioni in questi anni hanno lavorato per accorpare quei reparti, riducendo quindi il numero dei loro responsabili, cioè i primari. Poi sono stati tagliati alcuni piccoli ospedali, operazione richiesta dal ministero alla Sanità da anni. Ma è stata percorsa anche una strada che si potrebbe definire più virtuosa: quella della riconversione delle strutture minori.

Ecco il meccanismo: si prende un piccolo ospedale che magari ha 6 o 7 reparti e poco più di 100 letti e si fa specializzare in una sola attività, salvandolo e facendolo lavorare molto di più. In Toscana è stato fatto con Fucecchio in provincia di Firenze, dove è attivo un centro per le protesi di anca e ginocchio. In Veneto l’ospedale di Jesolo è da poco stato trasformato in un presidio monospecialistico per la riabilitazione, l’Emilia Romagna lavora per creare a Budrio, vicino a Bologna, un centro per la day surgery e la week surgery. Proprio l’assessore emiliano Sergio Venturi è tra coloro che non vedono il calo dei primari come una iattura. “Chiusure e riconversioni delle strutture piccole non vengono fatte per i primari ma per il bene dei cittadini – spiega – Quelle di vertice sono figure destinate a concentrarsi, un po’ come i direttori generali delle Asl. E se si accorpano gli ospedali quando ragioni geografiche e sanitarie lo permettono è una cosa positiva, anche se questo suscita nei medici un po’ di paure. Per quanto riguarda i professionisti, vanno individuati percorsi di carriera diversi, non è necessario che questa sfoci sempre nel primariato”.

Massimo Cozza della Cgil medici la vede in modo assai diverso. “Il vero allarme è che dietro la riduzione dei primariati non c’è solo la razionalizzazione ma anche un taglio dei servizi sanitari pubblici per i cittadini. La deriva della costante riduzione del personale si accompagna infatti a continui tagli dei posti letto ospedalieri e ad un razionamento anche dei servizi territoriali, con un trend negativo della percentuale del fondo sanitario nazionale rispetto al Pil. E i cittadini hanno sempre maggiore difficoltà ad accedere alla sanità pubblica tra liste di attesa, ticket e riduzione dei servizi. Questa deriva va bloccata, il trend deve essere invertito”.

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