Non a caso nel “Rapporto 2014 della Commissione sulle capacità innovative dei Paesi membri” l’Italia è inserita nel gruppo dei Paesi innovatori moderati insieme a Spagna, Portogallo, Ungheria e Grecia. Sono considerati primi della classe i Paesi leader come Germania, Svezia e Finlandia, seguiti dai Paesi che tengono il passo (Austria, Belgio, Francia); chiudono la classifica i Paesi in ritardo come Bulgaria, Romania e Lettonia.
Inoltre, secondo i dati della ricerca, le percentuali di innovazione e di crescita sono direttamente proporzionali, con le imprese più innovative che nel triennio 2010-2013 hanno fatto registrare un incremento del 29% rispetto alle altre. Quelle con media propensione al cambiamento (sono circa il 52%) sono cresciute del 15% in più, mentre quelle con bassa spinta al progresso si sono fermate al 5%. Numeri positivi, soprattutto se letti alla luce di un’altra caratteristica delle aziende italiane: fare network. Infatti complessivamente le imprese che fanno parte di reti sono il 15,3% tra quelle ad elevato contenuto innovativo, contro il 7,4% e il 6,2% tra quelle a media e a bassa innovazione.
Questo avvalora ulteriormente quanto affermato inizialmente, cioè che le Pmi italiane portano avanti un’idea di innovazione ampia, che abbraccia l’intera organizzazione aziendale e i rapporti con le aziende partner.
L’indagine ha però riscontrato che molte aziende non hanno piena consapevolezza della propria capacità innovativa, né posseggono gli strumenti e le risorse adatte a metterla in pratica. Per integrare l’innovazione agli altri processi aziendali, conclude la ricerca, c’è bisogno di favorire le Pmi con meno tasse, più export e open innovation, puntando non solo sulla ricerca tradizionale, ma favorendo “un processo di co-generazione delle idee” che porti alla luce questo potenziale inespresso.